Il radical chic, il cieco che vuole guidare gli altri

da | 13 Giu, 24 | Cultura, Cultura e società

Nel dibattito politico italiano è ormai usuale indicare la categoria del radical chic. Esiste oggettivamente questa categoria e come possiamo riconoscere chi vi appartiene?

La definizione è stata coniata dal giornalista americano Tom Wolfe (1931-2018) nel 1970 che scrisse un articolo nel New York Times su questo argomento. Nell’articolo il giornalista parlava di una festa organizzata dalla moglie del compositore USA Leonard Bernstein, Felicia voluta per finanziare le Pantere nere, movimento che si impegnava, anche con metodi violenti, per i diritti dei neri negli USA.

Il giornalista esaminò la questione da un punto di vista di curiosità giornalistica segnalando la presenza di élites che, per vari motivi, assumevano cause radicali pur avendo un tenore di vita che talvolta le allontanavano nei fatti dalle questioni che difendevano. Il primo esempio era proprio la la emarginazione delle classi popolari e dei neri nella società USA, indotta spesso dalle politiche di cui essi erano beneficiari. Sul tema poi scrisse un libro.

La categoria del radical chic, genialmente individuata dal giornalista, continua ad essere utilizzata anche oggi in Italia. Essa è diventata una definizione che i destinatari non accettano positivamente.

Un esempio iconico è la famiglia Benetton. Nel mentre, anche con le campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani, assumeva la difesa di cause che considerava nobili, nella gestione della società Autostrade, essa ha assistito senza problemi al crollo del Ponte Morandi a Genova con 43 morti. Dagli atti processuali risulta che esso è stato causato dalla scarsa attenzione alla manutenzione per massimizzare il profitto finanziario di strutture avute in gestione da questi oligarchi che naturalmente non se ne assumono la responsabilità, delegandola formalmente ai manager da loro scelti. Il feticismo delle regole è infatti un altro elemento spesso ricorrente.

Complessivamente si può dire che il radical chic assume un disagio e lo fa proprio senza però avere una visione complessiva del problema, denotando un sostanziale distacco dalla realtà come avviene nella difesa assoluta del movimento gender che afferma il carattere “culturale” e non naturale del sesso, arrivando ad assurdità come la partecipazione di maschi alle competizioni femminili o al cosiddetto “matrimonio” fra persone dello stesso sesso.

Il fenomeno assume vari aspetti. Un esempio è la globalizzazione e i suoi effetti. Da una parte il desiderio di trarre profitto dalle basse remunerazioni del personale nei paesi più poveri ha portato alla de-industrializzazione dei paesi occidentali e al peggioramento dello stato di vita delle classi più povere per la perdita di posti di lavoro nel nome del liberismo, accettato acriticamente dai radical chic. I prodotti a basso costo, ma griffati, vengono poi venduti ad alto prezzo nelle società più sviluppate e sono parte essenziale del modo di vita di alcune categorie sociali. Un altro effetto della globalizzazione è l’immigrazione incontrollata che viene difesa in nome della accoglienza, evitando di vedere le cause, spesso complesse e diversificate, che provocano questo dramma molto dannoso sia per i paesi di partenza che di quelli di arrivo.

Altre cause amate dai radical chic sono la liberalizzazione della droga, naturalmente leggera, e proposta con argomentazioni «buoniste» come la necessità di togliere alle mafie il controllo di questo mercato. In definitiva si può dire che il radical chic è un personaggio che non si preoccupa di analizzare in visione unitaria le cause dei fenomeni e nella difesa delle sua posizioni preferisce l’attacco personale a coloro che si oppongono, definiti di volta in volta, attraverso parole dispregiative (omofobo, razzista, fascista, maschilista), senza affrontare il merito dei problemi.

Il radical chic trova conferma delle sue posizioni nella stampa main stream, posseduta da quelle élites liberiste che traggono quasi sempre profitto da queste cause e ne sostengono la narrazione.

Come esito si assiste ad un progressivo distacco dalla realtà delle società occidentali che ricorda il libro distopico di George Orwell (1903-1950) «1984», dove il Ministero della Verità, descritto dallo scrittore, affermava «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza». Erano frasi ripetute all’infinito per mantenere il potere alle classi dominanti e che ricordano oggi la narrazione sull’Ucraina, dove l’invio di armi per alcuni salva vie umane.

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Vincenzo Silvestrelli

Vincenzo Silvestrelli

Presidente di Eticamente. Ha lavorato presso ELIS e presso Banca dell'Umbria